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Totò l’artigiano della risata e della Riconoscenza

Anche CASARTIGIANI vuole partecipare, con riconoscenza, alle celebrazioni per i 50 anni dalla scomparsa del Principe Antonio de Curtis, in arte Totò, come direbbe Lui,  parte nopeo e parte napoletano, artigiano della risata, perché il Suo era un laboratorio originale, artefice della comicità. L’etimo è lo stesso, perlomeno per contrazione, perché non c’è Plauto, non c’è Moliere, non c’è Wilde, non c’è Keaton, Lui è l’inventore della risata che, come vediamo, morto Lui, è scomparsa. Un po’ come Raffaello e la Natura, come trascritto sul sacello al Pantheon, nella celebre iscrizione. La sera prima aveva detto al Suo fedele autista Cafiero: “Cafiè stasera me siento proprio na’ schifezza”. Cafiero amava profondamente il Principe, con quella sensibilità di servizio che solo a Napoli, pur se trasferiti a Roma (sono tantissimi), si ha e si sente, e si preoccupò molto, anche se non poteva pensare al peggio.

L’affetto, anche se spontaneo, nasce sempre dalla stima ed è corroborato da questa e Cafiero con la sua berlina, sempre lucida, aveva accompagnato il Principe in tanti incontri e constatato la Sua umanità e generosità, come quando immancabilmente voleva che ci si fermasse alla torretta dei vigili di Pizza Ungheria, dove Totò soleva accostarsi, chiedendo all’agente di servizio, dopo brevi convenevoli: “quanti figli tieni?” e in relazione alla risposta corrispondeva l’entità dell’elargizione a umile ma generosa corresponsione del bisogno, dei mitici enormi biglietti da 10 mila lire degli anni ‘60. Più figli, più banconote. O come quando, sotto la Sua abitazione ai Parioli, o in qualsiasi altro posto dove era avvertita la presenza del Principe, si radunava un gruppo eterogeneo di bisognosi (perché non crediate, c’era bisogno anche in quei leggendari anni ’60 quando la lira aveva raggiunto l’Oscar per la stabilità).

Totò non faceva mancare a nessuno il Suo aiuto ma, in particolare, si tramanda avesse sensibilità, Angelo della risata, per una vecchina di comune origine campana, che gli urlava: “Principe, che la Madonna v’accumpagni”. Questi sono gli aneddoti tramandati ma tanto è stata  la beneficenza e l’umanità di questo Gigante della Vita, anche per i Suoi adorati animali, cani e gatti in particolare, tanto generoso da prosciugare, con la filantropia, tutti i Suoi pur ingenti guadagni costringendolo ad un immane lavoro che lo aveva logorato in un fisico, straordinario per comicità e simpatia, ma non proprio resistente. C’è un qualcosa di metafisico e di mistico nella figura di Totò e se è vero come è vero che gli Angeli amano, i bambini, i poeti e i poveri, per sillogismo abbiamo capito tutto. Totò era un Angelo. Lui, infatti, aiutava i poveri, era un mecenate e poeta Egli stesso, basti per tutto, la composizione di Malafemmina (indimenticabile interpretazione del nostro straordinario non dimenticato Gino Mele, emulo di Totò) e soprattutto faceva ridere i bambini e li fa ridere incredibilmente ancora adesso, perché mentre gli altri, pur grandi, pian piano scompaiono nella memoria collettiva dei giovani, Totò è sempre vivo, amato e conosciuto. Indimenticabile il ricordo di un’arena estiva ,stracolma di bambini, e quando diciamo stracolma diciamo sovrabbondante, seduti per terra, sulle piante, uno sopra l’altro,  sullo schermo la scena di “Totò a colori” quando Totò, alias Cigno di Caianiello, getta l’ennesima valigia consegnatagli dall’Onorevole Trombetta, alias il fedele amico Castellani, dal finestrino del treno. Tra la folla di bambini c’è un urlo, tra il compiaciuto, il divertito e lo stupito, con scene di gaudio e di ingenua liberazione, come solo da bambini si può avere. E ognuno a mimare il gesto del lancio della valigia gettando via qualcosa come se si buttasse via l’umana condizione, che infanzia disconosce e rifiuta.

Sì, Totò era un Angelo e Cafiero gli portava una forte riconoscenza e non solo lui, tutti rispettavano anche la sua albagia, portata con classe e disinvoltura ( termine che avrebbe reso comico in “Miseria e Nobiltà”). Quando smetteva i panni di Totò e diventava il Principe Antonio de Curtis di Bisanzio. Racconta Montanelli che, una volta, invitato a pranzo, stava ricordando un episodio riferito alla Imperatrice Teodora, moglie di Giustiniano, il famoso imperatore di Costantinopoli e dell’Impero Romano d’Oriente, fautore del corpus iuris civilis e Totò, quasi infastidito, lo interruppe interloquendo “Ah, sì, sì quella zo…la di mia zia Teodora”. Tutto questo, a dimostrazione di una figura pirandelliana in cui il Genio di Totò e quello del Principe si confondevano e si cromatizzavano come in un prisma molteplice. Cafiero sapeva che cosa era la Riconoscenza e cosa significava aver incontrato un Signore come de Curtis sulla sua strada. E non è vero che la Riconoscenza era più diffusa in quegli anni 60, che adesso, ogni epoca ha la sua storia e i suoi costumi, certi valori sono imperituri, solo molto rari se non unici in un’epoca di esibizionismo da social, di improvvisati teatranti, di balli e di palestre più che di librerie e di altruismi.

L’Italia che aveva rappresentato Totò era comunque un Paese povero, ma non un povero Paese. (Vedi il post scriptum).

Indimenticabili alcune figure, sì comiche, ma anche drammatiche e comunque veritiere ed esemplificative. Chi può dimenticare Antonio il portiere della “Banda degli onesti” che spaccia le 10 mila lire buone a metafora di un’Italia onesta che, anche quando trasgrediva, lo faceva con onestà.  E come scordarsi di Dante Cruciani de “I soliti ignoti” che insegna agli improbabili astanti l’apertura di una cassaforte “in corpore vili” a dimostrazione neo realistica della insopprimibile, per quanto ironica arma dell’espediente italico. La leggendaria lettera di “Totò, Peppino e la Malafemmina” che un sudatissimo mitico De Filippo  cerca di scrivere su uno stravolgimento totale della sceneggiatura  voluto da Totò che inventò di sana pianta la scena. E poi quando si recano a Piazza del Duomo e chiedono informazioni a un “Ghisa” con la mitica frase “”Noio… volevam… volevàn savoir… l’indiriss… “noi vogliamo sapere, per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?” Lo stupito vigile urbano (siamo sempre stati convinti si trattasse di Giannantonio Negri, del resto. Lui non lo ha mai smentito) che risponde. “…se volete andare al manicomio  vi accompagno io…” Tutto questo ad allegorica dimostrazione di una difficile integrazione Sud –Nord, anche per problemi di idioma. Ma adesso se vai a Milano in molti ristoranti o luoghi pubblici c’è incorniciata la fotografia di Totò e Peppino a riconoscente impegno nel contributo sociale con il loro “castigat ridendo mores”. Quando, poi,  Totò dava il massimo, sempre con un quid di geniale improvvisazione, è nella farsa come in “Miseria e Nobiltà” pur nella scena con Angelo Turco, nell’improbabile pignoramento del cappotto, ma ancor più, nella mitologica scena del ballo sul tavolino con gli spaghetti fumanti stipati nelle tasche e addentati voluttuosamente.  Miseria e Nobiltà, appunto, a dimostrazione etica di quanto può essere nobile la miseria e a volte miserabile la nobiltà.

Messaggi subliminali, metafore, allegorie, vis comica, vis drammatica, genio, impatto sociale, popolarità ma non è bastato, la critica, in vita, non l’aveva mai perdonato, perché l’italiano come dice Flaiano, perdona tutto meno che il successo. Ci è voluto un Poeta consacrato come Lui, pur così diverso, come Pasolini, per legittimarlo definitivamente con quella maschera tragica di “Uccellacci uccellini” che a Totò non convinceva, ma pur vi si adattò di buon grado sempre nella ricerca di lavoro, per trovare risorse, per fare del Bene. Non c’era brefotrofio, orfanotrofio, ospizio, casa di riposo, organizzazione umanitaria e poi via via canile,  che Totò non avesse aiutato, non c’era mano tesa rifiutata. Lui sapeva che la Riconoscenza viene derubricata e dimenticata  prima ancora che corrisposta  ma come ogni figlio di Poro e di Penia (Espediente e Povertà per Platone genitori dell’Amore) non si rassegnava a ciò come non si rassegnava a un amore finito, per non contraddire se stesso e il senso dell’Amore che è eterno. Questa immensa figura ha lasciato una traccia anche nel lessico con le sue mille locuzioni anch’esse sinteticamente metaforiche: “siamo Guelfi o Ghibellini?”; “Ho fatto il militare a Cuneo”; “si lasci servire”; “a prescindere” “ammesso e non concesso”; “ma mi faccia il piacere”; “Signori si nasce e io modestamente lo nacqui”, e mille altre ancora. Quello, poi, che rendeva tutto magico era la Sua inconfondibile, commovente, suscitativa ed evolutiva voce che brameremmo  un  giorno di risentire. Pur centomila volte imitata, ma mai immedesimata, piuttosto verace, come quella irripetibile di un padre o di un fratello amato o più semplicemente di un Amico vero. Gli ultimi anni non erano stati facili per Totò, la salute, la cecità, la difficoltà nel lavoro. Questa maschera tragica e disperata nello stesso tempo liberatrice per la gioia che emanava ebbe l’ultimo leggendario bagliore, nella partecipazione a  Studio Uno con Mina, dove pur disorientato dal non vedere e stanco bastò che concedesse l’ultimo esclusivo irripetibile ballo da maschera snodata, che il boato fu assordante e raggiunse tutte le generazioni e tutti i bambini che lo avevano amato e che ancora lo ameranno. Bene ha fatto Benigni quando al ritiro dell’Oscar ha detto: “questo andava non a me, ma a Totò”. A prescindere!

 

(post scriptum) Racconta Montanelli che una volta ricevuto dal Presidente De Gaulle gli chiese del perché ce l’avesse tanto con l’Italia che era un Paese povero. L’arroganza francese, attraverso quel grand’Uomo, si espresse dicendo: “l’Italia non è un Paese povero, è un povero Paese”. Montanelli si pentì sempre di non essersi alzato e andato via, anche se non era facile davanti a De Gaulle. Ricordiamocelo sempre quello di Totò era un Paese povero ma seppe rinascere. Cerchiamo di non diventare un povero Paese. Riconoscenza eterna a Totò e a quelli come Lui, forse Angeli, forse Umani, ma dispensatori di Amore. Totò questo artigiano della risata liberatoria, e della metafora salvifica della felicità col niente, perché libero come un artigiano e così intuitivo, sempre diverso, sempre nuovo. Non sappiamo esattamente quale sia stato l’epilogo della vita di Cafiero, sappiamo però, con certezza, che aveva sempre dimostrato Riconoscenza, sapeva che la Riconoscenza lo faceva diventare lui, semplice autista, ma valoroso e fedele autista, un grande Uomo, mentre la mancanza di questa ti fa diventare un miserabile.

Riconoscenza eterna a Totò e a quelli come Lui.

C’è bisogno di meno invidia e più Riconoscenza. A prescindere!

 

Dedicato ad Alfredo Luongo e a Mino Valleri , anche loro un po’ Totò e un po’ Principi, con la Riconoscenza per quello che ci hanno potuto e voluto insegnare.

 


 

 

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